Ironia a parte, quel che è accaduto a Perugia a cavallo tra il primo e il 2 luglio non solo ha dell’incredibile, ma è un perfetto esempio di quanto il sistema giudiziario italiano sia lacunoso e oltremodo permissivo, garantendo oltremodo chi delinque rispetto a chi si guarda bene dall’infrangere la legge.
I fatti. Martedì notte la polizia di Perugia sorprende ed arresta un giovane magrebino, B.F., classe ’83, mentre sta rubando all’interno dei garage di un condominio, nella zona di San Galigano. Grazie al sonno leggero di un residente, la volante riesce ad intervenire in tempo cogliendo il ladruncolo sul fatto. Il tunisino è già noto alla polizia per episodi simili. Al momento dell’arrivo degli agenti, porta sottobraccio un casco da motociclista, appena sottratto da uno dei garage. Come da prassi, poco dopo il fermo il giovane viene rilasciato con denuncia a piede libero, visto anche il valore esiguo della refurtiva, peraltro ottenuta senza alcuna effrazione dato che la porta del garage era stata lasciata aperta.
Tornato libero alle 7 del mattino, due ore dopo lo ritroviamo a Madonna Alta, mentre tenta di introdursi in un’autovettura in sosta, una Volvo per l’esattezza. Su segnalazione di un residente, la volante si reca sul posto e sorprende il nordafricano all’interno della macchina, precedentemente scassinata. Addosso al giovane, che in un primo momento tenta – senza successo – di divincolarsi e di aggredirli, gli agenti trovano il frontalino dell’autoradio e un caricabatteria, appena prelevati dall’abitacolo. Il tempo di riconsegnare la refurtiva al proprietario e di condurre il tunisino in Questura, e si apprende che è lo stesso giovane arrestato nella notte per il furto nei garage di San Galiano.
Stavolta non c’è denuncia che tenga: arresto, processo per direttissima e relativo patteggiamento della pena, che prevede un periodo di detenzione talmente esiguo da far rimettere subito in libertà il ladro. Avrà imparato qualcosa da questa esperienza? Ma figurarsi. Passando dalle parti di Via Gallenga, il tunisino nota una succulenta Mercedes parcheggiata, e pensa bene di completare il proprio trittico di opere pie (nel senso di “pigliare”, ovviamente) forzando la chiusura dell’auto e rubando un telefono cellulare e un timbro da ufficio, ovviamente appartenenti al proprietario della macchina. Il quale, tuttavia, si accorge di quanto sta avvenendo e chiama il 113. Sirene al vento e lucine blu, poi una breve corsa a piedi e infine, di nuovo, i braccialetti metallici che scattano ai polsi del 31enne. E’ la terza volta nel giro di 16 ore. Domani mattina andrà in scena un altro processo per direttissima. Chissà se B.F. potrà ancora patteggiare e tornare in libertà, per compiere magari nuove, mirabolanti gesta?
Al di là della cronaca spicciola, imbastita in questo casi di imbarazzante ilarità, resta il fatto che ogni giorno, in tutta Italia, migliaia di agenti sono costretti a rischiare personalmente, a perdere il proprio tempo – e con esso le risorse economiche dei cittadini – per catturare personaggi che, nel giro di poche ore, tornano liberi di delinquere senza neanche aver scontato un’ammenda, in termini economici oppure di ore di servizi socialmente utili. A voler ragionare in maniera cinica, quanto costano le cancellerie dei tribunali, le ore di lavoro e il rischio corso dagli agenti, le spese processuali, gli stipendi dei magistrati? A fronte di tutte queste spese, chi delinque difficilmente paga qualcosa. E soprattutto, quasi sempre, torna in libertà entro breve, senza alcun piano di reinserimento e senza altro da fare che tornare a delinquere.
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