sabato, 22 marzo 2025 Ultimo aggiornamento il 4 marzo 2025 alle ore 14:45

Quell’arte, che è “più sopportabile della vita”

Modigliani, le sue donne, la Parigi bohémienne di inizio Novecento: Marco Bocci nei panni del celeberrimo pittore livornese, per la regia di Angelo Longoni, al Teatro Morlacchi di Perugia.

 
Quell’arte, che è “più sopportabile della vita”
Perugia. “Non c’è niente di più triste di un sogno che muore”. Di sogni che si spengono, lenti, come polmoni affetti da tisi, di solitudini, grandi, riempite di oppio, hashish, assenzio, di volti, allungati, come maschere africane, ma dagli occhi cerulei, che, nelle linee angolose, racchiudono l’universo tutto, del ripudio della stupidità del mondo, che con le sue ipocrisie, le sue leggi di mercato, la sua realtà oggettiva, orrorifica e indipingibile, uccide più della tubercolosi, è intessuta la vita e l’opera del grande pittore e scultore ebreo-livornese Amedeo Modigliani, per il quale l’arte era più sopportabile della vita. “Vita che è dono dei pochi ai molti, di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e che non hanno”. Vita che è restituibile, nel marmo o sulla tela, attraverso l’essenzialità secca di un tratto che “è tuo, se ti è rimasto dentro”.

Nella pièce di cui conduce la regia, a Modì dedicata, e alle donne amate e dipinte dall’artista parigino d’adozione, vicino ai Fauves, Picasso, Toulouse-Lautrec, Cézanne, Brâncusi, Soutine e Rivera, ossessionato dalla figura umana, femminile, inquadrata, con taglio modernissimo, nei volti trasfigurati e nei nudi smaltati, Angelo Longoni racconta uno spaccato della temperie artistica d’avanguardia che si respirava a Montmartre e a Montparnasse a inizio Novecento. Lo fa, Longoni, al Teatro Morlacchi di Perugia, tratteggiando la psicologia del tormentato pittore, interpretato da Marco Bocci, e delle donne dal collo lungo da lui ritratte, dalla prostituta e modella Kiki de Montparnasse, sguaiata e audace amante che inizia il giovane e facoltoso ebreo agli ambienti artistici parigini della Belle Époque e della “fata verde” diluita nelle coppe d’assenzio, ad Anna Achmatova, poetessa russa, sposa del poeta Nikolaj Gumilev, che scova nell’uomo una grandezza data dalla solitudine, che lo contraddice e lo incalza, e che lo ama carnalmente e spiritualmente; dalla giornalista progressista de “Le impressions of Paris”, inviate al quotidiano britannico The New Age, Beatrice Hastings, che lo convince a dedicarsi alla sola pittura, sostenendo che l’arte non possa esistere al di fuori dei circuiti economici della committenza e delle richieste del mercato, cui il selvatico e schivo Modì rifugge, immergendosi nella polvere dei suoi marmi, alla giovane studentessa Jeanne Hébuterne, la moderna e delicatissima Giulietta che tenterà, fino alla morte (di Amedeo, all’Hospital de la Charitè, il 24 gennaio 1920 e sua, suicida all’indomani), di salvare il suo amato dalla malattia, la povertà, la droga e l’alcool, da sempre, per lui, compagni di una parabola artistica, ancor prima che umana. Giulia Carpaneto, Vera Dragone, Romina Mondello e Claudia Potenza interpretano, fuori e dentro le tele, all’interno e all’esterno dell’atelier di Modì, nel mezzo di una profonda immersione nei paradisi artificiali delle droghe e nel travaglio di un’ispirazione sofferta e cieca, a tratti autoreferenziale, e, poi, catapultate nella Parigi di inizio secolo (la Tourre Eiffel che campeggia, la Grande Guerra sullo sfondo), le propaggini umane e artistiche del pittore, ognuna con i propri vezzi, le proprie fragilità, la propria impenetrabilità. E con la propria grandezza.

In una dimensione intimista, che delinea una prospettiva “altra” da cui guardare alla sregolatezza di linee e contorni, di ritmi e curve, di accordi cromatici e musicali, come quelli, sospesi nelle note di Ryūichi Sakamoto e Richard Horowitz, i cui nomi sono legati alla colonna sonora de “Il tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci, leitmotiv del dramma scritto e diretto da Longoni, sulla base di una temporalità a ritroso, che dalla morte del grande artista inizia ed alla morte ritorna. Così come alla proiezione, sullo sfondo, dei suoi nudi, sdraiati, distesi, seduti, e dei suoi, numerosissimi, ritratti, venduti, dopo la sua morte, stavolta sì, a peso d’oro.

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