Nella pièce di cui conduce la regia, a Modì dedicata, e alle donne amate e dipinte dall’artista parigino d’adozione, vicino ai Fauves, Picasso, Toulouse-Lautrec, Cézanne, Brâncusi, Soutine e Rivera, ossessionato dalla figura umana, femminile, inquadrata, con taglio modernissimo, nei volti trasfigurati e nei nudi smaltati, Angelo Longoni racconta uno spaccato della temperie artistica d’avanguardia che si respirava a Montmartre e a Montparnasse a inizio Novecento. Lo fa, Longoni, al Teatro Morlacchi di Perugia, tratteggiando la psicologia del tormentato pittore, interpretato da Marco Bocci, e delle donne dal collo lungo da lui ritratte, dalla prostituta e modella Kiki de Montparnasse, sguaiata e audace amante che inizia il giovane e facoltoso ebreo agli ambienti artistici parigini della Belle Époque e della “fata verde” diluita nelle coppe d’assenzio, ad Anna Achmatova, poetessa russa, sposa del poeta Nikolaj Gumilev, che scova nell’uomo una grandezza data dalla solitudine, che lo contraddice e lo incalza, e che lo ama carnalmente e spiritualmente; dalla giornalista progressista de “Le impressions of Paris”, inviate al quotidiano britannico The New Age, Beatrice Hastings, che lo convince a dedicarsi alla sola pittura, sostenendo che l’arte non possa esistere al di fuori dei circuiti economici della committenza e delle richieste del mercato, cui il selvatico e schivo Modì rifugge, immergendosi nella polvere dei suoi marmi, alla giovane studentessa Jeanne Hébuterne, la moderna e delicatissima Giulietta che tenterà, fino alla morte (di Amedeo, all’Hospital de la Charitè, il 24 gennaio 1920 e sua, suicida all’indomani), di salvare il suo amato dalla malattia, la povertà, la droga e l’alcool, da sempre, per lui, compagni di una parabola artistica, ancor prima che umana. Giulia Carpaneto, Vera Dragone, Romina Mondello e Claudia Potenza interpretano, fuori e dentro le tele, all’interno e all’esterno dell’atelier di Modì, nel mezzo di una profonda immersione nei paradisi artificiali delle droghe e nel travaglio di un’ispirazione sofferta e cieca, a tratti autoreferenziale, e, poi, catapultate nella Parigi di inizio secolo (la Tourre Eiffel che campeggia, la Grande Guerra sullo sfondo), le propaggini umane e artistiche del pittore, ognuna con i propri vezzi, le proprie fragilità, la propria impenetrabilità. E con la propria grandezza.
In una dimensione intimista, che delinea una prospettiva “altra” da cui guardare alla sregolatezza di linee e contorni, di ritmi e curve, di accordi cromatici e musicali, come quelli, sospesi nelle note di Ryūichi Sakamoto e Richard Horowitz, i cui nomi sono legati alla colonna sonora de “Il tè nel deserto” di Bernardo Bertolucci, leitmotiv del dramma scritto e diretto da Longoni, sulla base di una temporalità a ritroso, che dalla morte del grande artista inizia ed alla morte ritorna. Così come alla proiezione, sullo sfondo, dei suoi nudi, sdraiati, distesi, seduti, e dei suoi, numerosissimi, ritratti, venduti, dopo la sua morte, stavolta sì, a peso d’oro.
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