Consapevole che avrebbe dato un dolore certo a sua madre – la quale gli avrebbe chiesto espressamente, come lo stesso regista ligure ha affermato, di fare uno spettacolo sul Vangelo: “Così dai un messaggio d’amore” –, nel concepire, per poi trasporlo in scena, un “Vangelo” corsaro, a tratti irriverente e dissacrante, scanzonato, a tratti volutamente kitsch, Delbono estende la sua ricerca, in ambito teatrale, alla creazione di un linguaggio personale in cui “il verbo” è in grado di incarnarsi in una feroce contemporaneità, fatta di guerre, di approdi, disperati, alla terra promessa, delle storie dei migranti, dei rifugiati – il riferimento è al centro di accoglienza PIAM di Asti –, di resistenza alla morte. Quando la vita può essere guardata, illuminata, scandagliata, senza timore alcuno. Quando anche la musica – è lo stesso Delbono, mentre legge vorticosamente le pagine del suo canovaccio, salendo sul palco, camminando fra gli spettatori, in un continuo scambio fra realtà e finzione, che, da un punto di vista spaziale, ricorda certi allestimenti beckettiani, a fare richiesta “della musica, della musica e basta” – si trasforma in un atto di coraggio, di disarmo, sugli arrangiamenti ed il coro polifonico di Enzo Avitabile. Quel “verbo”, allora, si biforca, ramificandosi ancora, nelle voci di tanti Cristi che si sono fermati nei luoghi-non luoghi degli ospedali, delle carceri, dei centri di accoglienza, in Italia come in Francia, in Romania come in Russia, e poi in America Latina, in Africa, in Medio Oriente: un mondo altro, quello raccontato dalla compagnia teatrale di Delbono – il lavoro corale è nato a Zagabria, con l’orchestra, il coro, gli attori e i danzatori del Teatro Nazionale Croato –, non irretito nel mistero della fede, degli incensi, del bigottismo di una morale che condanna il peccato, l’amore, finanche la felicità, nei dogmi, negli assiomi, nei divieti. Un mondo in cui “è l’uomo ad aver creato Dio”, in cui i crocefissi campeggiano sui muri scrostati di edifici degradati, senza Madonne, e senza affreschi, senza riti: c’è, su quella croce, lo stesso Cristo sofferente, e umano, de Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini (1964), e non Barabba; c’è una donna, una peccatrice, e poi ci sono i versetti del Vangelo secondo Giovanni: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”, ci sono le cose sante che, come si legge nel Vangelo secondo Matteo, non vanno date ai cani, così come “le perle non vanno gettate davanti ai porci”; ci sono delle sedie vuote, e dei personaggi, pirandelliani, che vi si siedono, con la loro urgenza di rompere gli schemi delle convenzioni sociali, della “forma”.
L’allestimento, allora, ne risulta costantemente abbozzato, come se gli attori stessi fossero immersi in una costante prova generale, più che in una rappresentazione teatrale compiuta: una evoluzione continua, una ricontestualizzazione della parola, sempre nuova, sempre in essere, in divenire, che trova nell’atto teatrale una forma di condivisione. E le perle, quelle che non devono essere gettate davanti ai porci, sono rappresentate da “corpi senza menzogna”, da “persone che si ritrovano nella loro stessa natura”. Allora il verbo si incarna nella sindrome di down di Gianluca, nel sordomutismo di Bobò, nella condizione di clochard di Nelson: “il Vangelo mi intriga – ha dichiarato Delbono in una recente intervista (a cura di Ana Tonkovič Dolenčić) –. Contiene messaggi che mi sembrano importanti. Semplici, ma allo stesso tempo rivoluzionari. Quando si leggono le parole del Vangelo staccate da una visione moraleggiante, quando si arriva alla sostanza, si scopre che si sta parlando d’amore (…). La fede esiste in quello spazio in cui non capiamo, non vediamo”. La vera rivoluzione sembra coincidere con il sovvertimento delle false morali addotte per una certa ipotesi di Dio. Specie se questa rivoluzione è innescata sulle note di Andrew Lloyd Webber, autore della colonna sonora di Jesus Christ Superstar.
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